La crisi dell’auto non scherza. Oltrepassa i nostri confini ad attanaglia anche la Germania, il paese industrializzato per eccellenza che ha sempre messo l’automotive fra gli asset più strategici. Nell’occhio del ciclone, in questo caso, è il gruppo Volkswagen, il più grande d’Europa con una quota di mercato di oltre il 25%. Un’auto su quattro immatricolata nel Vecchio Continente è griffata Wolfsburg. Nei momenti di transizione caratterizzati da profondi cambiamenti, le dimensioni possono essere un’arma a doppio taglio. Addirittura un problema da affrontare. Alle volte enorme.
L’amministratore delegato del Gruppo ha fatto sentire la sua voce, segno che il limite è vicino ad essere valicato: «La Germania perde sempre più terreno in termini di competitività», ha chiosato Oliver Blume, Ceo del gigante tedesco e già numero uno della Porsche che è stata recentemente separata mantenendone però il controllo. Sul banco degli imputati è in particolare il marchio VW, il più grande, che rappresenta oltre la metà del business del costruttore. Molteplici sono le cause che hanno messo in difficoltà l’azienda, una delle principali è la cospicua eccedenza di forza lavoro, in particolar modo in Germania, ma anche nel resto del mondo.
Le cifre di potenziali esuberi che circolano sono da brividi: 120 mila dipendenti in patria, quasi 300 mila nel totale. Anche un’azienda sana e con prodotti di ottima qualità unanimemente riconosciuti può subire forti pressioni se il rapporto fra forza lavoro e produzione non è più bilanciato. La Volkswagen ha indubbiamente subito un calo di produzione, ma la sua storia ha sempre impedito un taglio della forza lavoro. I rappresentanti sindacali sono nel Consiglio di Sorveglianza, massimo organo della società per le decisioni strategiche. In 87 anni Volkswagen non ha mai chiuso uno stabilimento mandando a casa gli operai come il Ceo ipotizza di essere costretto a fare ora.
Sotto la mannaia pare ci sia una grande fabbrica di auto ed un impianto di componenti. D’altra parte diminuiscono le richieste in Europa (circa -20% rispetto al 2019), sale la spinta dei costruttori orientali presenti con delle fabbriche nel continente e sono sbarcati i cinesi che qualche tempo fa non c’erano. Pensare di mantenere i volumi del passato è troppo ambizioso, per riuscirci forse bisognerebbe abbassare così tanto i prezzi da rinunciare ai margini. E questo non si può perché, oltre a svolgere un ruolo sociale, la società è quotata in borsa e, quindi, sotto la lente degli analisti. Blume, quindi, sembra sul punto di arrendersi con le cure tradizionali, non basta più tagliare i costi, agire sui prepensionamenti, sugli accordi di uscita, è necessario alleggerisi riducendo le dimensioni.
Il percorso non sarà facile ed irto di ostacoli. Il predecessore di Blume, Herbert Diess, è forse caduto proprio su questo passaggio: per mantenere i profitti aveva tagliato drasticamente l’assemblaggio facendo esplodere il problema degli esuberi. Il potente sindacato aveva fatto le sue mosse, anche politiche, e la famiglia che controlla VW Group fu invitata a sacrificare il manager. Ora la partita è un po’ diversa, perché Blume, a differenza di Diess, ha un rapporto strettissimo con gli azionisti e se si è esposto avra le dovute coperture. L’apparato, però, ha già alzato le barricate.
«Un attacco all’accupazione, ai posti di lavoro ed ai contratti collettivi: questo mette in discussione la Volkswagen e quindi il cuore del Gruppo», ha tuonato Daniela Cavallo leader del Consiglio di Fabbrica. Con le procedure ventilate salterebbe infatti l’accordo azienda-sindacato di non toccare la forza lavoro fino al 2029. Lo tsunami è stato accolto come una novità positiva dalla borsa: il titolo ha chiuso a 102,7 euro, rafforzandosi del 1,6%, dopo aver toccato anche i 104,4 euro durante le contrattazioni.