Donald Trump e Sergio Marchionne

Dazi, la trattativa interrotta di Marchionne: «Trump ha le sue ragioni, un accordo si può trovare»

di Giorgio Ursicino
  • condividi l'articolo

ROMA - Un’operazione non conclusa. L’ultima trattativa del guerriero. Del manager illuminato. Un uomo che era molto più di un capitano d’industria, l’italiano più stimato e potente fuori dalla Penisola. Nelle ultime ore Trump ha di nuovo tuonato sui dazi per le auto, ma se il destino non si fosse portato via in poche settimane Sergio Marchionne il dossier sarebbe già stato sistemato, un affaire di fondamentale importanza per le relazioni transatlantiche, ma che ha riflessi di rilievo su tutto lo scenario globale.

«Non è la fine del mondo, è una questione che si può risolvere - aveva dichiarato meno di un mese fa - Donald sa quello che dice, ha le sue buone ragioni. Bisogna ascoltarlo senza far scattare facili ritorsioni e trattare per raggiungere un accordo. Noi stiamo dialogando con Washington, l’obiettivo è alla portata, riparliamone 30 fra giorni». Trenta giorni sono passati, ma dell’argomento Sergio non avrà più modo di parlare e c’è il forte rischio che, senza la sua mediazione, l’atmosfera torni ad infiammarsi. Una situazione delicata per Fca, ma anche per l’intero settore. Uomo abilissimo, ma anche pragmatico, Marchionne, con un forte senso della giustizia; capiva al volo le persone, il loro punto di vista e la sostanza delle cose, rendendo semplici anche le situazioni più complesse. Era filo governativo ovunque e rispettava la volontà degli elettori almeno quanto i giudizi dei mercati. Aveva un profondo rapporto con Barak Obama, ma era entrato subito in sintonia anche con Donald Trump, personalità quasi opposte. Le trattative lo esaltavano, gli permettevano di mettere in campo tutto il suo intuito e il suo talento e le enormi competenze che aveva appreso studiando: filosofiche, legali, finanziarie. Sergio più volte aveva spiegato la sua visione sui dazi dell’automotive, un approccio in qualche modo legato all’interscambio fra i vari paesi e a tassazioni che «dovevano essere bilanciate».

Poi aveva iniziato a tessere la tela per centrare il target, un risultato importante che avrebbe portato vantaggi non solo a Fiat Chrysler e che avrebbe fatto ulteriormente crescere il suo prestigio e quello della sua azienda sul palcoscenico americano, quello più importante per Fca. In un panorama così complesso Sergio si era mosso con grande semplicità. Contatto diretto con Trump («È il mio manager preferito», aveva dichiarato il Presidente), dialogo con la squadra della Casa Bianca, abile comunicazione pubblica e messaggi riservati agli interessati. Sergio conosceva bene la Cancelliera Merkel e, se voleva, sapeva come raggiungerla. Nel giorno della sua ultima apparizione pubblica alla cerimonia dei Carabinieri aveva tirato in ballo la Germania: «Non si può parlare di Europa, bisogna guardare i numeri, valutare paese per paese. Berlino esporta tante vetture in America, Parigi quasi nessuna». Sergio aveva fatto notare che l’Italia era in una posizione intermedia: «È vero che portiamo delle Jeep in Europa, ma io spedisco anche molte Renegade di Melfi negli Usa, oltre alle Alfa di Cassino e alle Maserati di Mirafiori».

I riflettori venivano quindi puntati sulla Germania, un messaggio per ammorbidire la Cancelliera e tranquillizzare Donald. Nessuno saprà mai se Marchionne abbia anche parlato con la Merkel invitandola a trovare una quadra che sarebbe stata vantaggiosa per tutti. Sia come sia, dopo qualche giorno, la Cancelliera ha cambiato posizione: «Sono pronta al dialogo sui dazi dell’auto, potremmo prendere in considerazione l’ipotesi di azzerarli per tutti». Ecco l’avvicinamento delle posizioni che andava sfruttato per chiudere, ma Sergio non ha potuto dare il suo boost. In fondo il principale player automotive europeo aveva in qualche modo riconosciuto quello che chiedeva Trump e che Marchionne riteneva andasse preso in considerazione: «Ribilanciare», «Reciprocità».

Eh sì, perché è vero che dovrebbe esserci il libero scambio, ma le tariffe doganali sono spesso diverse fra loro. Possono avere un senso quando si crea un grande mercato che non ha industria per spingere i costruttori ad impiantare fabbriche sul posto. Quando però la produzione locale supera le vendite il motivo dei dazi viene meno. La Cina è diventato il più grande mercato di auto del pianeta, ma sono nati così tanti stabilimenti che ormai quel paese produce più di quanto vende. Perché i dazi per importare un’auto in Cina sono ancora tanto alti? Gli States sono stati a lungo grandi produttori, ma ora producono sul loro territorio, più o meno i veicoli che vendono sul mercato interno.

La Germania, invece, produce 6 milioni di veicoli e ne vende sul suo territorio poco più di 3, l’Italia ne vende 2 e ne produce meno di uno; la varie bilance commerciali del settore hanno pesi molto diversi fra loro. In ogni caso le tutte auto che dall’Europa vanno in Usa pagano più o meno un quarto dei dazi rispetto a quelle che fanno il percorso inverso, anche se sono dello stesso brand. Di questo è infuriato Trump e questo problema Marchionne era certo si sarebbe sistemato distendendo le relazioni almeno nello strategico settore automotive.
 

  • condividi l'articolo
Giovedì 26 Luglio 2018 - Ultimo aggiornamento: 18:44 | © RIPRODUZIONE RISERVATA
COMMENTA LA NOTIZIA
0 di 0 commenti presenti