Caos nei campus Usa, l’attivista Tom Fels: «Nei nostri movimenti c’era spazio per il dialogo»

“Le modalità sono rimaste identiche anche se c’è internet leader e studenti non hanno imparato molto dalla storia”

Caos nei campus Usa, l’attivista Tom Fels: «Nei nostri movimenti c’era spazio per il dialogo»
di Angelo Paura
4 Minuti di Lettura
Venerdì 3 Maggio 2024, 00:16 - Ultimo aggiornamento: 07:37

Tom Fels è curatore, scrittore e autore di due libri e diversi articoli sugli Anni ‘60, sul movimento studentesco, sulle proteste contro la guerra e sulle comuni che sono dilagate nel Paese durante quel periodo, dove ha vissuto per quattro anni tra il 1969 e il 1973. Ha studiato all’Amherst College, una delle università più esclusive degli Stati Uniti, con sede in Massachusetts. Vive a North Bennington, in Vermont.

Proteste pro-Gaza, 2.000 arresti nei campus Usa. Biden: «Tuteliamo quelle pacifiche, non le violente. No all'antisemitismo nei campus»

Può descrivere le motivazioni che la hanno spinta a partecipare al movimento studentesco contro la guerra negli Anni ‘60 e ‘70?

«Nella mia epoca il coinvolgimento politico è prima iniziato con il lavoro nel movimento per i diritti civili, che poi si è trasformato in attività contro la guerra.

Ho deciso di aderirvi per la convinzione che il nostro governo non stesse agendo in modo morale ed etico nella guerra del Vietnam. Tutto iniziò da quelle motivazioni».

Oggi la maggior parte dei professori sta dalla parte degli studenti, mentre negli Anni ‘60 c’era una frattura generazionale più forte e spesso gli insegnanti erano contro le proteste. I professori erano contro di voi?

«Ai miei tempi alcuni professori altruisti, persino alcuni politici, sostenevano l’attivismo studentesco. Molti altri no. Ho lasciato l’attivismo dopo il college, percependo che i risultati ottenuti da individui e piccoli gruppi venivano vanificati dalle istituzioni e che venivano invocate nuove forze (droga, violenza) con le quali non volevo essere associato».

Quali sono state alcune delle strategie o tattiche chiave impiegate dal vostro movimento per aumentare la consapevolezza dei cittadini e dei politici sul problema della guerra in Vietnam? Sono ancora efficaci?

«Gli strumenti dell'epoca erano le manifestazioni, che sono un metodo usato ancora oggi. Spesso con cartelli stampati o scritti: servivano sia per diffondere il nostro pensiero che per dare parole e immagini ai giornalisti che poi le avrebbero usate per scrivere articoli o per i notiziari in televisione. Da allora i media sono cambiati moltissimo e gli strumenti si sono evoluti. Oggi bisogna considerare anche internet che può essere un’importante tecnica di disturbo e di attivismo come stiamo vedendo in questi giorni nelle proteste».

Vede qualche parallelo tra il movimento studentesco contro la guerra degli Anni ‘60 e ‘70 e le attuali proteste che chiedono la fine della guerra nella Striscia di Gaza?

«Il parallelo positivo è che i metodi precedenti sono stati adattati, addirittura copiati oggi. L’aspetto negativo è che la protesta è diventata, per alcuni, una professione, per la quale il disturbo è l’unico scopo, spesso bloccando soluzioni più ragionate».

Parlando di soluzioni, quale ritiene siano i risultati più significativi raggiunti dal movimento studentesco contro la guerra nel Vietnam?

«Sia i movimenti per i diritti civili che quelli contro la guerra volevano portare questi problemi all’attenzione del pubblico e, al tempo stesso, portare avanti i loro obiettivi. Sfortunatamente molti di questi progressi sono stati annullati oppure sono ora in pericolo. Inoltre, il movimento conservatore ha adottato alcune delle tattiche della sinistra, e addirittura le ha migliorate, quindi questo sarebbe, a mio avviso, uno degli esiti negativi dei movimenti di protesta degli Anni ‘60 e ‘70».

Guardando indietro, quale lezione pensa che gli attivisti di oggi possano imparare dai successi e dalle sfide affrontate dal movimento studentesco del passato?

«Temo che la lezione che devo più spesso dare è che leader e studenti non hanno imparato molto dalla storia dei movimenti che sembravano invece essere così promettenti nell’America del dopoguerra».

© RIPRODUZIONE RISERVATA