L'ingegner Marelli con Mario Andretti

L'ingegner Giovanni Marelli ci ha lasciati: fu il volto e l'anima del ritorno dell'Alfa Romeo in F1 negli anni Ottanta

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L’ingegner Giovanni Marelli, classe 1940, ci ha lasciato. Laurea in ingegneria meccanica a Padova, entra in Ferrari nel 1967 con l’incarico di seguire nel reparto corse la Dino, sia F.2 sia montagna. Dopo i successi alla Tasman Cup contro la Lotus di Jim Clark, segue, sport e F.1 con Mauro Forghieri e per primi grazie agli studi dell’ingegner Caliri impiegano in F.1 le ali aerodinamiche, convincendo il Commendatore grazie soprattutto al figlio Piero. Agli inizi degli anni settanta l’Ing. Marelli lascia con grande rammarico il cavallino per il biscione. Chiamato dal Presidente Alfa Romeo di allora, Giuseppe Luraghi, che lo volle a fianco dell’Ingegnere Carlo Chiti, per il crescere dell’impegno nelle competizioni sia nel Campionato prototipi con la 33 sia nel turismo con le GTA e GTAM ma anche per i rally in preparazione dell’arrivo di modelli importanti come l’Alfa Sud e l’Alfetta, in breve tempo vincono ovunque partecipano. 8 gare su 8 con la 33 con motore aspirato e turbo, Campionato rally Gruppo 2 con l’Alfetta di Pregliasco, Campionato europeo con le GTAm e conquista della Coppa del Re di Spa-Francochamps.

Il reparto corse dell’Alfa Romeo, l’Autodelta, doveva crescere e crebbe arrivando fino in Formula 1 ma anche nel settore sperimentazione e produzione (allora i dipartimenti di R&D si chiamavano così).  L’Alfa Romeo di allora aveva propri stabilimenti anche in Sud Africa e Sud America e le corse erano strategiche per sperimentare nuove soluzioni. “Erano anni affascinanti ma anche complicati. L’Alfa con Luraghi si stava espandendo sempre più: stabilimenti in Sud Africa, presenza crescente in Europa e USA… le corse erano strategiche e per questo tutti erano impegnati. Le pressioni politiche erano però pesantissime. Nel turismo eravamo fortissimi con una vettura nata nel 1965! La GTA. Nel ’77 vincemmo otto gare su otto con la 33 Fernet successiva alla Campari che già era fortissima e avevamo due motori, aspirato e turbo. Perché bisognava sempre e solo sperimentare, innovare, per rimanere primi.”

Raccontava negli ultimi tempi l’Ing. Marelli.  "Con Chiti si lavorava e sperimentava sempre perché mai ci si accontentava. In Ferrari c’era uno sviluppo meticoloso con disegni e distinte; in Alfa questo no, era tutto un fermento ma anche perché si era davvero impegnati per una realtà industriale molto più ambiziosa e strategica con pochissimi uomini. In questi ultimi tempi dicono che tutto è in forte accelerazione, ma è sempre stato così. Dal telaio tubolare allo scatolato, su tutti i fronti, non eravamo mai soddisfatti, con l’Ing. Chiti volemmo insistere nei rally ed entrare in F.1 dopo l’esperienza di fornire motori alla Brabham. Diciamo che eravamo arrivati a una posizione di leader assoluti: rally, prototipi, F.1, produzione: eravamo riusciti ad essere ovunque con una rete di imprese attorno eccezionale. Brembo, ad esempio, la spingemmo tantissimo e arrivammo all’apice con la pinza a 4 pistoni per la Giulietta Turbodelta: frenava meglio della Porsche; con Spica accelerammo sull’iniezione ad alta pressione… I rally?

I torinesi arrivavano con elicotteri e risorse infinite; noi eravamo azienda di Stato con partiti che intervenivano sui budget, ridotti all’osso, con l’Ing. Chiti si facevano miracoli! Nei rally come assistenza si partiva con la mia Alfetta con carter secco, testa 4 valvole e 150 mila km sulla scocca a fare anche da muletto per le ricognizioni assieme al furgone Romeo e una Giulia Break per l’assistenza veloce. L’Alfetta GTV Gruppo 2 l’avevamo sviluppata in fretta e furia perché volevamo dare una risposta ai torinesi che spopolavano: ruotone generose della 33, sospensioni adeguate, parti alleggerite e motore spinto ma non all’inverosimile. C’era la Opel di Conrero con Ormezzano. La nostra Alfetta viaggiava come un treno nelle mani di Mauro Pregliasco. Grandissimo pilota e uomo, come Icks, Andretti... Nel Gruppo 2 siamo riusciti in imprese impossibili, come stare davanti alle tante Fiat 131 tra cui quelle di Verini, Bettega e Tony Fassina o la Stratos di Vudafieri.

Al tempo stesso, stavamo sviluppando il ritorno in F.1 che ci portò con grande fatica e impegno a conquistare sul finire del Campionato Formula 1 ‘80 con Bruno Giacomelli la pole. Avevamo fatto un lavoro straordinario, era l’epoca dell’effetto suolo, della lotta tra Fisa e Foca, tra Jean Marie Balestre e Bernie Ecclestone, di una Ferrari molto impegnata ma anche di Renault con i turbo, della Williams di Jones e della Brabham di Piquet e soprattutto di Bernie Ecclestone con i super budget di Parmalat. Fu un periodo dove il Presidente Ettore Massacesi,  l’Ing. Carlo Chiti e il sottoscritto avevano pressioni pazzesche perché parte della politica volevano che chiudessimo. Arrivarono molti uomini da Olivetti, tanto marketing poco prodotto e prestazioni. Ci tengo a ricordare che assieme a Ferrari eravamo gli unici a farci tutto in casa come telai, motore…ma con tantissimi vincoli. Ferrari era uno solo a decidere, in Alfa…un parlamento!

Vedere al GP di Watkisn Glen la nostra macchina partire in pole, a soli 2 anni dal debutto, e dopo aver perso uno dei miei piloti e amici più cari, Patrick Depailler, è stato davvero uno dei momenti più importanti e difficili della mia vita. La vettura che avevamo era fortissima, finalmente, Bruno aveva dato in pochi giri dodici secondi all’inseguitore. Poi, il guasto elettrico. Capita. Non la prendemmo male perché sapevamo che avevamo tutte le possibilità di vincere il Campionato dell’anno successivo. E lì si decise di chiamare Andretti, per dare anche più supporto a Bruno perché volevamo stravincere e ne avevamo davvero le possibilità. Purtroppo sottovalutammo il fatto che tutti avevano capito che la nostra Alfa era difficile da battere sulla pista, così gli inglesi ma anche altri spinsero per il cambio dei regolamenti e la lotta tra FISA e Foca si rafforzò con i team inglesi che non erano politicamente corretti. Loro interpretavano i regolamenti noi li seguivamo alla lettera. E perdemmo competitività.

Accelerammo pertanto nella direzione di fare dell’Autodelta una realtà più indipendente, cercando di anticipare quello che la AMG e la Motorsport di BMW sarebbero diventate. Con l’ing. Chiti avevamo approntato tutto. Noi eravamo per la trazione posteriore, il cambio dietro il motore per non perdere cavalli ma già soffiava forte il vento della trazione anteriore anche per le berline. Avevamo in canna anche una 2 posti motore centrale biturbo da 400 cavalli con telaio scatolato e parti in materiali compositi per tenerla leggera. Aveva la potenza che arrivò dieci anni dopo con la Ferrari F40. Ma la politica aveva deciso di cedere l’Alfa. E io prima e lui poi, lasciammo la tanto amata Alfa Romeo.” Le opportunità non mancano mai se sai cosa vuoi ma soprattutto se si sta sul pezzo. Carl Haas aveva un team in F.1 Indy con l’attore Paul Newman. Nacque l’idea con Eric Broadley, fondatore della Lola, di lavorare tutti assieme per una winner car con materiali compositi e più leggeri. In Italia l’ingegner Marelli aveva avviato una proficua collaborazione e una società con la Monfrini che poi venne acquisita da Raul Gardini per il Moro. Portò Hass e Broadley in Italia che non potevano credere che fossimo più avanti degli inglesi e della Boeing nei materiali compositi.

Furono colpiti e diedero carta bianca. E nel 1984 quella vettura vinse il Campionato CART con Mario Andretti. Nel mentre si aprì la possibilità di fare un nuovo motore dal duplice utilizzo: un 4 cilindri 2100 per la Ford Probe per il Campionato Imsa e un 1500 per la F.1 con Zakowsky. Apri anche a collaborazioni con Yamaha per la testata a 5 valvole in fase di sviluppo e nell’occasione un alto dirigente giapponese gli parlò della Dakar che non vincevano dai tempi della XT500, parlando di “maledizione”. L’alto dirigente giapponese raccontò all’ingegner Marelli dell’impegno con il team francese Sonauto e che speravano di ritornare vincenti. Gli presentarono il distributore di Yamaha Belgarda che stava preparando un reparto corse e trovò la YZE 750 T, pensando subito a come renderla più forte per la Dakar dei primi anni novanta.

Lavorò sulla sospensione, sull’aspirazione del motore e la testa. Alla fine Lalay arrivò secondo, dietro al mito Peterhansel. Poi sviluppo la 600 monocilindrica per la pista. Ma oltre ad asfalto e terra, l’Ingegner Marelli si è cimentato anche nella nautica con Renato Molinari e Tullio Abbate, con un rapporto bellissimo, per il tarlo della velocità che li accomunava. E per soddisfarlo se ne provava di ogni. Dai motori alla fluido dinamica, lavorò per rendere più sicure le cellule e i primi airbag marini. Negli ultimi anni realizzò un avanzato elicottero ultraleggero che aveva le potenzialità dell’airmobility che stanno sviluppando oggi oltre a veicoli commerciali elettrici per la movimentazione merci e non solo in città. I suoi mezzi sono ancora in giro per le strade di Parigi. Ha anche partecipato al record di velocità nel 1994 del veicolo 100% elettrico di Bertone Z.E.R che sfondò il muro dei 300 km/h con alla guida l’Ingegnere De Vita. 

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Giovedì 10 Ottobre 2024 - Ultimo aggiornamento: 11-10-2024 09:45 | © RIPRODUZIONE RISERVATA