San Valentino, l'amore va preso con filosofia: ecco le ricette dei grandi pensatori

San Valentino, l'amore va preso con filosofia: ecco le ricette dei grandi pensatori
di Ilaria Gaspari
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Domenica 9 Febbraio 2020, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 10:14

Ve ne sarete accorti dalla sovrabbondanza di cuori – cuori di peluche, cuori di lustrini, cuori di cera che in realtà sono candele – che spuntano in ogni dove: San Valentino è alle porte e come ogni anno, per quanto facciamo i cinici e ci proclamiamo ostili alla festa, ci tocca fare i conti con il nostro, di cuore, che non è di peluche né di cera. Possiamo essere felicemente o infelicemente innamorati, soli o in coppia, oppure al vertice di qualche triangolo isoscele o scaleno; possiamo gioire o soffrire per amore, ma una cosa è certa, e cioè che, per fortuna, potremo sempre prenderla con filosofia.

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D’altronde, quasi ogni cosa si può prendere con filosofia, perché la filosofia si occupa della vita. E quindi anche dell’amore, con cui ha un legame speciale: nella parola filosofia, addirittura, è inclusa la radice greca del verbo amare. Difatti per molto tempo l’amore è stato considerato materia per filosofi e poeti, prima di essere affidato quasi in esclusiva a cantanti e psicologi, che però hanno un debito con quei filosofi e quei poeti che, ben prima di loro, si sono chiesti cosa voglia dire essere umani.

LE CONTRADDIZIONI
Anche se sembra un paradosso, i filosofi hanno proprio le parole che ci servono per imparare a pensare l’amore in un modo meno astratto. Platone, ad esempio, che sorprendentemente non è stato l’inventore dei famigerati “amori platonici” – tortuose relazioni in cui ogni contatto fisico è scoraggiato in nome di una pura corrispondenza spirituale – ha saputo raccontare la natura ambivalente e contraddittoria del desiderio, che è uno sguardo sulle nostre mancanze, una tensione insaziabile volta verso un altro che non ci può appartenere completamente: non, almeno, finché lo desideriamo. In effetti, se anche solo una volta ci è capitato di innamorarci, sappiamo quanto fa soffrire e quanto è bella quella distanza che sentiamo fra noi e la persona che amiamo, via via che la mettiamo a fuoco, che la vediamo per quello che è e ci protendiamo nella sua direzione.

E sappiamo pure riconoscere la nostalgia preventiva che ci assale quando ci accorgiamo che qualcuno ci piace davvero, e che dunque, per un tempo indefinito, ci toccherà struggerci in ogni istante, da vicino o da lontano, per l’imprevisto spalancarsi di quel bisogno tutto nuovo che ci costringe a uscire da noi stessi.

A spiegarci perché questo struggimento ci piaccia tanto, e anzi ci renda proprio più felici, possiamo chiamare tre filosofi noti per essere piuttosto austeri, che però sanno prestarci lenti nuovissime da cui guardare all’amore. Il primo è Baruch Spinoza, che fu costretto a vivere fabbricando letteralmente occhiali, perché le sue tesi erano tanto anticonformiste da non permettergli di fare il filosofo se non in incognito, e cioè mentre si guadagnava da vivere con il mestiere di ottico: nella sua Etica ci dice che l’amore è una forma di gioia, ovvero un sentimento che ci rende più vivi, più radicati nel mondo, più presenti – più perfetti, scrive lui – e che si scatena però solo in presenza di una persona, o dell’idea di una persona, che stia al di fuori di noi.

Simone Weil, tre secoli dopo, in pieno Novecento, ha aggiunto che amare qualcuno significa vederlo davvero come un essere umano, fatto di segreti e silenzi, dolori e piaceri, di ombra e distanza, proprio come noi; e accettare, adorare addirittura, la distanza che ci permette di guardare l’altro per intero.

Il terzo filosofo, Theodor W. Adorno, ha scritto invece una frase che dovremmo tenere a mente per non scordarci cosa distingue l’amore dagli altri sentimenti – cioè la tenerezza, che fa sì che, laddove siamo amati, possiamo mostrarci deboli senza provocare in risposta la forza.

IL CRITERIO
Non esiste amore, insomma, senza la persona che amiamo, non esiste amore che non ci proietti fuori di noi; e gli amori che non sono gioia, che non ci migliorano e non ci proteggono, non sono amori veri. Non è semplice farsene una ragione, ma avere qualche buon criterio per distinguere il vero amore da amori presunti e un po’ malati è sempre utile, anche perché ci permette di proteggerlo e di accoglierlo; questo i filosofi lo sanno. Perché anche loro si innamorano; fra mille compromessi, arrabattandosi per affrontare l’attrito con la vita quotidiana, come racconta, intrecciando alla sua le biografie di tre filosofe innamorate (Eloisa, Hannah Arendt e Simone De Beauvoir), Vittoria Baruffaldi in un delizioso libro in uscita martedì per Einaudi, C’era una volta l’amore – Brevi lezioni per innamorarsi con filosofia.

IL PERICOLO
Ma non c’è bisogno di essere filosofi, basta essersi innamorati una volta per sapere che in amore non ci si può tutelare, che non si è mai davvero al riparo. Non ci sono assicurazioni che tengano: si capisce che è amore solo quando tuffarsi senza rete sembra più divertente che spaventoso. Quando l’amore non c’è, o finisce, il rischio appare improvvisamente enorme, terrificante, una voragine. Quando c’è l’amore, invece, del pericolo si ride: che strano.

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