«Non spostate quell'auto», condannato per resistenza a pubblico ufficiale

La sede della Corte d'appello e della procura generale di Perugia
di Egle Priolo
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Giovedì 2 Maggio 2024, 10:17

PERUGIA - Non è necessaria la violenza o la minaccia, anche impedire la rimozione di un'auto incidentata è resistenza a pubblico ufficiale. Lo ha stabilito la Corte d'appello di Perugia, dopo il ricorso della procura generale nella causa contro un uomo considerato violento anche nei suoi tentativi di non far compiere atti necessari dopo un sinistro. Una storia molto particolare, resa nota dal Notiziario penale di Corte d'appello e procura generale, iniziata con un incidente stradale, un uomo ubriaco alla guida e il padre da proteggere dalle violenze dello stesso figlio. Nella sentenza depositata lo scorso mese, infatti, i giudici d'appello hanno stabilito come «commette il delitto di resistenza a pubblico ufficiale l’imputato che indirizzi la propria condotta ad impedire il compimento di atti di ufficio, condotta non limitata ad una “resistenza passiva” e che integra il delitto contestato anche dal punto di vista soggettivo, avuto riguardo all’effettivo intendimento dell’imputato che non era venuto meno a seguito dell’evidente stato di ebbrezza alcolica».
In base alle risultanze dei due processi, l'imputato dopo essersi messo alla guida decisamente alticcio, quindi già trasgredendo le norme del codice della strada sul tasso alcolemico consentito al volante, ha causato un incidente stradale «a causa del proprio stato di ubriachezza», sottolineano i giudici.

LE ACCUSE
Ma la resistenza a pubblico ufficiale è arrivata dopo, quando «impediva agli agenti della polizia municipale di procedere al recupero e alla rimozione del mezzo e sbracciando e sgomitando si divincolava per sottrarsi all’intervento degli agenti che cercavano di proteggere il padre dell’imputato dall’aggressione di quest’ultimo».

La Corte d’Appello, quindi, accogliendo il ricorso della procura generale diretta da Sergio Sottani «riformando in parte qua la pronuncia di primo grado, ritiene che la descritta condotta integri il reato previsto dall’art. 337 del codice penale», la resistenza appunto. Che si ritiene solitamente integrata quando «chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza», con pene previste tra i 6 mesi e i 5 anni. Particolare anche la spiegazione dei giudici d'appello, che all'uomo hanno applicato anche «la recidiva – si legge ancora nel notiziario - in quanto l’imputato risulta gravato da precedenti specifici che dimostrano come lo stesso sia un soggetto dal carattere violento e come quindi anche il reato in oggetto sia significativo e sintomatico di un carattere proclive a commettere reati connotati da violenza».

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