Jacky Ickx con la tuta di pilota Prosche durante una 24 Ore di Le Mans

Anche i piloti hanno il diritto alla vita,
la sicurezza viene prima della carriera
di Jacky Ickx

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LE MANS - Il mio angelo custode è stanco. Poverino, con me è stato molto impegnato. Ma mi è sempre rimasto vicino. Da solo non sei nessuno, non vai da nessuna parte. Nè nelle corse nè nella vita. La vita la fai insieme agli altri.

Le cose e le persone che incontri ti cambiano l’esistenza: dietro ogni impresa c’è sempre tanta gente e bisogna avere la fortuna di trovarsi al posto giusto al momento giusto. Esiste un destino, una trama. È vero, io ho avuto l’occasione di prendere delle decisioni e fare delle gesta che possono aver cambiato la storia delle corse, migliorando la sicurezza e salvaguardando la vita umana che è un bene di inestimabile valore. Certo sono stato io a farlo, ma quello era l’attimo giusto e mi sono trovato lì. Forse non ho nessun merito.

Una grande svolta avvenne proprio alla 24 Ore di Le Mans, una corsa meravigliosa, probabilmente la più bella di tutte, sicuramente quella che io amo di più. Era il 14 giugno del 1969 e si partiva ancora con le vetture a pettine, scattando a piedi dall’altro lato del tracciato. Tutti correvamo come dei folli, saltavamo dentro e via, a tutto gas senza cinture. Si perdeva troppo tempo per allacciarle senza l’aiuto dei meccanici e l’operazione veniva rinviata alla prima sosta ai box, al cambio pilota. Una pazzia al volante di bolidi da oltre 500 cavalli che viaggiavano per lunghi tratti oltre i 300 km/h.

La Porsche, che ha legato la sua storia a questa gara, per tradizione realizza ancora le vetture con l’accensione a sinistra del volante: una scelta che consentiva di avviare il motore avendo l’altra mano già pronta per azionare il cambio. Io non ero più d’accordo con questa procedura di partenza e decisi di fare diversamente. Era arrivato il momento di cambiare. Se così non fosse stato, sarebbe finita diversamente e sarei passato per uno sciocco. Come pilota ero sotto pressione. In prima fila scattavano le nuove Porsche 917, io correvo con la Ford GT40 che aveva dominato le precedenti tre edizioni (mi era stata affidata proprio la vettura che aveva trionfato l’anno prima con Rodriquez-Bianchi), ma io non avevo mai vinto.

Tutti filarono via, io attraversai la pista camminando e, solo dopo aver allacciato le cinture con cura, mi avviai in fondo al gruppo con 44 vetture da superare. Purtroppo al primo giro la 917 di John Woolfe uscì di strada alla Maison Blanche e il pilota senza cinture perse la vita. Con me correva Jackie Oliver e la nostra gara fu magnifica. Piano piano superammo tutti, percorrendo poco meno di 5 mila chilometri ad oltre 200 km/h di media. Riuscimmo a precedere di un soffio la Porsche di Herrmann-Larrousse togliendo alla casa di Stoccarda, con cui poi ho corso tante volte, la gioia della prima vittoria a Le Mans (poi si è rifatta con gli interessi).

È andata bene, ma non oso pensare cosa sarebbe accaduto se, invece di vincere, avessimo perso per pochi secondi dopo che io avevo buttato tanto tempo al via. Dopo la gara durissima e i festeggiamenti ero molto stanco. Rientro verso Parigi al volante di una Porsche Targa e trovo un trattore in mezzo alla strada. Per schivarlo perdo il controllo ed entro con tutta la vettura in una chiesa sfondando la porta. Ho la cintura e il mio angelo custode mi dice: «Jacky quanta fretta, la chiesa può attendere, non è ancora arrivato il tuo momento».

L’anno successivo a Le Mans io ero nella squadra Ferrari e vinse la Porsche in una delle edizioni più dure e difficili, ma la partenza fu lanciata e tutti i piloti avevano le cinture ben allacciate. Un quarto di secolo dopo il destino mi ha di nuovo messo al volante di una svolta per la sicurezza. Proprio in questo periodo, a venti anni dalla morte di Senna, in diversi mi hanno ricordato di aver tolto la prima vittoria in F1 ad Ayrton interrompendo il Gran Premio di Monaco in anticipo. Non andò così. Anche in quel momento era arrivato il momento di cambiare ed io mi sono trovato lì.

Ero il direttore di corsa e venne giù il diluvio, era pericolosissimo continuare fra muri e guard rail senza visibilità. Fino a quel momento, però, non si interrompevano le gare, bisognava arrivare in fondo. Io sono uno che non si tirava certo indietro quando c’era di guidare sotto l’acqua, in tanti dicono che andavo molto forte. In quelle condizioni, però, i rischi erano spropositati. È vero, Ayrton recuperava su Prost, ma dietro Bellof andava ancora più forte. Non era giusto fare rischiare quei ragazzi così tanto: non guardai la classifica e misi fine alla gara. La vita è più importante della carriera, da quel giorno è cambiata la mentalità delle gare, ho contribuito a cambiare l’aspetto psicologico: oggi si può fare lo sport automobilistico e continuare a vivere.

Ho vinto sei volte a Le Mans, il mio amico Tom Kristensen lo ha fatto in 9 occasioni e quest’anno può arrivare in doppia cifra, è stato più bravo di me. Un record che resterà a lungo imbattuto, forse per sempre. Chi riuscirà mai a vincere così tante Le Mans? Non sono d’accordo con quelli che dicono che io ho vinto in altri tempi, che ora è più facile. Forse è più difficile, prima si correva in due, ora in tre, il risultato dipende da altre due persone. E poi si guida dall’inizio alla fine come fosse un gran premio, senza respiro. Tom è straordinario, un grande talento e una grande persona e la seconda cosa è più importante della prima.

Fare paragoni con il passato è una perdita di tempo, guardare indietro non serve a nulla. Io correvo tutti i weekend, dove capitava, con le vetture più diverse. Ora non si può più fare. Nei giorni scorsi è mancato Jack Brabham. Nel 1969, l’anno in cui ho vinto la mia prima Le Mans, correvo in Formula 1 con la sua scuderia ed ero suo compagno di squadra, quell’anno vinsi i Gran Premi in Canada e al Nurburgring, a fine stagione fui secondo nel Mondiale come l’anno successivo con la Ferrari. L’unica similitudine con il passato è che devi avere la fortuna di trovarti nella squadra giusta.

In un team di Le Mans devono esserci ingegneri, tecnici, meccanici di grande qualità, se hai la fortuna di trovarti lì devi sfruttare l’opportunità. In tutto questo c’è un’ingiustizia: gli onori vanno al pilota, ma dietro ci sono persone di grande qualità, passione, motivazione ed esperienza che restano nell’ombra. Non le vedi ma ci sono. Sono i misteri del destino che ti portano nella squadra giusta. Ora che ho qualche anno in più certe cose le capisco meglio: la parabola cambia incontrando la gente sulla tua strada, sono loro che fanno la tua vita. Io non avrei voluto fare il pilota. Da ragazzo sognavo di fare il giardiniere. Sono felice della mia storia, ma non credo di aver fatto nulla per realizzarla, è la gente che ho incontrato che mi ha portato in questa direzione.

Nei giorni scorsi ho fatto la Mille Miglia, un’occasione unica di sentire l’anima dell’Italia e degli italiani, un piacere per gli occhi e le orecchie. Io sono stato per 10 anni un pilota Porsche, mi sento molto legato a quella famiglia. Ma sono stato per 5 anni un pilota Ferrari e questa è un’esperienza unica: per questo da 40 anni sono nel cuore della gente. Quando passo vicino a Modena ho sempre un pensiero per Enzo Ferrari. Oltre che l’amicizia ricordo la grande pazienza e la grande tenerezza che aveva nei miei confronti. Sì, potrà sembrare strano, ma tenerezza è la parola giusta. Mi dispiace per Stefano Domenicali, un ottimo manager. Chi non fa errori? Forse non si può evitare, Stefano è stato come un fusibile, come l’allenatore di una squadra di calcio, qualcosa deve saltare. Quest’anno sarà una grande 24 Ore, ci sono tre auto in grado di vincere e per la prima volta ci sono due squadre dello stesso gruppo una contro l’altra, per migliorarsi. Conosco Ferdinand Piech, questo è il suo spirito.

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Martedì 10 Giugno 2014 - Ultimo aggiornamento: 13-06-2017 15:08 | © RIPRODUZIONE RISERVATA