La Porsche 917 vincitrice dell'edizione 1970 della 24 Ore di Le Mans

Da Bentley ad Alfa, da Ferrari ad Audi:
Le Mans ha scritto la storia dell'auto

di Sergio Troise
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LE MANS - Quest’anno nella 24 Ore di Le Mans si sfideranno gli squadroni di Toyota, Audi e Porsche. Ma chiunque vinca l’edizione 2014 della classica francese dell’endurance, resterà imbattuto il record della Porsche, unica Casa al mondo che possa vantare 16 successi nella maratona più dura, più lunga e affascinante del mondo.


I migliori tra gli avversari, ovvero i cugini dell’Audi, sono relegati a quota 12. La Ferrari, terza a quota 9, ha dominato la scena nel dopoguerra e nei favolosi anni 60, ma ha abbandonato da tempo le gare di durata per concentrare tutti gli sforzi sulla Formula 1. Si attende con trepidazione il gran ritorno, anche se il 14 giugno Fernando Alonso andrà a Le Mans solo per dare il via, come starter d’eccezione, all’edizione numero 82 della mitica corsa francese.

Simbolo del legame tra Le Mans e Porsche è un dettaglio che caratterizza tutte le sportive prodotte nella gloriosa fabbrica di Zuffenhausen. E’ la chiave di contatto a sinistra. Fino al 1969, infatti, la procedura di partenza prevedeva che i piloti raggiungessero di corsa le auto schierate a spina di pesce davanti al muretto dei box e che scattassero il più rapidamente possibile. Girare la chiave di contatto con la sinistra e ingranare la prima con la destra poteva dare un vantaggio. Da allora, dunque, tutte le Porsche, in testa l’immortale 911, hanno conservato l’insolita disposizione del contatto, anche se dal 1970 la partenza a Le Mans è cambiata, per motivi di sicurezza.

Per la Porsche tutto ebbe inizio nel 1970, ai tempi della 917K, auto realizzata in soli dieci mesi partendo dalla base della 908, mitica superleggera (venne soprannominata “bicicletta”) impiegata nelle cronoscalate e nelle corse su strada come la Targa Florio. Montava il primo motore a 12 cilindri boxer della casa tedesca (5.0 litri, 520 cv) e impiegava leghe speciali e materiali come il titanio e il magnesio necessari per contenere il peso a 800 kg. Con questo gioiello vinsero il tedesco Hans Hermann e l’inglese Richard Attwood, gareggiando per i colori della scuderia austriaca Porsche KG di Salisburgo.

Un anno dopo, con la stessa auto, toccò a Helmut Marko e Gijs Van Lennep, che vinsero alla media di 222,304 km/h (397 giri e 5335,313 km): un record straordinario, che grazie alle modifiche al tracciato, rallentato dalle chicane, ha resistito fino al 2010.

La successiva Porsche 936 vinse nel 1976 e nel ‘77, poi il filotto dal 1981 all’87 interrotto solo dal ritorno della Jaguar (1988) e dalla irruzione, nel 1989, dei giapponesi di Mazda. I quali dimostrarono al mondo, con la 787B, che un motore rotativo Wankel poteva imporsi ai propulsori tradizionali.

Notevolissima l’innovazione giapponese: quel motore era costituito da 4 rotori in linea, dotati ognuno di tre candele di accensione, aveva una cilindrata unitaria di 654 cc per un totale di 2.616 cc, equivalenti a 4.708 di un normale motore a pistoni. La potenza erogata era di 700 cv a 9.000 giri, tutto sommato un regime contenuto per prudenza, dato che gli ingegneri Mazda rivelarono che oltre tale soglia la potenza sarebbe aumentata drasticamente, fino a 930 cv, con un limite portato a 10.500 giri.

Il Wankel ha avuto un limitato sviluppo nella produzione di serie della Mazda, che lo ha utilizzato per qualche tempo soltanto sulla sportiva RX8, poi uscita di produzione e non sostituita da un modello simile. Da allora, comunque, nessun’altra casa giapponese è riuscita a imporsi a Le Mans: a vuoto i tentativi in anni recenti di Toyota, mentre Nissan si è concentrata su vetture sperimentali. Resta dunque ineguagliato tra i big d’Oriente l’exploit del piccolo costruttore di Hiroshima.

Gli anni 90 segnano un altro punto di svolta, con i “padroni di casa” della Peugeot (guidata da Jean Todt), che nella corsa più prestigiosa si impone nel ‘92 e nel ‘93 con la 905 Eco 1B, ultima evoluzione di una vettura Sport Prototipo con tutte le caratteristiche di una Formula 1 a ruote carenate. Straordinaria la passerella del ’93, primo anno senza Mondiale Prototipi, quando la Peugeot ha come unico obiettivo confermare la vittoria a Le Mans e piazza addirittura tre vetture ai primi tre posti. Un trionfo.

Nel nuovo secolo, a partire dal 2000, la scena viene conquistata invece dai tedeschi dell’Audi: un dominio quasi assoluto (12 vittorie), contraddistinto inizialmente dalla supremazia della R8; poi, nel 2006, dal coraggioso sdoganamento del motore Diesel con la R10 TDI, l’auto che ha segnato una svolta epocale nella storia delle corse di durata, convincendo anche altri – Peugeot in testa - a cimentarsi nella specialità.

La 908 HDi FAP della casa del Leone è stata la prima auto francese a gasolio a imporsi nella 24 Ore, anche se ha dovuto aspettare il 2009 per sfatare il tabù. Prima dell’impresa Peugeot, il dominio Audi ha subito un’altra interruzione per l’exploit firmato Bentley, nel 2003. Apparentemente la vittoria del brand alato sembrò segnare il ritorno degli inglesi, scomparsi dalla scena prima dell’era Jaguar (7 vittorie negli anni 50, una nell’88 e una nel ‘90), in realtà fu una operazione orchestrata dai panzer tedeschi per dimostrare al mondo che l’aver rilevato il glorioso marchio britannico non era stata una scelta azzardata da parte di Volkswagen Group.

Bentley aveva portato una dote di charme e d’eleganza che da sempre era mancata in quella che era stata “l’auto del popolo”, ma era stata anche dotata di contenuti tecnologici e qualità sportive degne di una competizione ai massimi livelli come la 24 Ore. Una corsa della quale il marchio inglese aveva contribuito a scrivere la storia sin dalle alle origini, con le varie Bentley “3 Litre”, “4 e mezzo Litre” e “6 e mezzo Litre” impostesi tra il 1924 e il 1930, quando avevano conquistato cinque vittorie, intervallate solo da due successi della Lorraine-Dietrich (1925 e 1926).

Caso Bentley a parte, i colori inglesi sono stati sempre ben rappresentati a Le Mans, anche da altri marchi, nelle categorie minori prevalentemente con MG e Triumph, tra i top team con Aston Martin e, soprattutto, Jaguar. La gloriosa Casa di Coventry proprio nella 24 Ore utilizzò per la prima volta i freni a disco, nel 1954, aprendo la strada a una svolta tecnica che avrebbe rivoluzionato tutta la produzione automobilistica (la prima auto di serie ad utilizzarli sarebbe stata la francese Citroen DS nel 1955). La D-Type, poi, è stata l’auto che ha regalato a Jaguar il più grande trionfo sportivo automobilistico inglese, conquistando una storica doppietta a Le Mans nel 1957, dopo aver già vinto nel ‘55 e nel ‘56.

La 24 Ore, del resto, è stata un banco di prova impareggiabile per tutti. Quando non c’erano computer, robot e simulatori, la prova estrema della resistenza alla fatica dei materiali (motori, organi meccanici, gomme) era proprio la corsa di durata francese. E l’ottimizzazione dell’aerodinamica, resa necessaria dalle velocità di punta raggiunte sul rettilineo delle Hunaudieres (fino a oltre 350 km/h) la si deve proprio alle sperimentazioni fatte a Le Mans. Solo lì, sul circuito della Sarthe, il problema dei progettisti e degli ingegneri non è tanto migliorare la tenuta in curva, ma tenere l’auto incollata all’asfalto in rettilineo, evitando che decolli come un aereo.

Un problema emerso con drammatica gravità nel 1999, con gli spaventosi voli delle Mercedes GT1 (tre volte) e, qualche anno dopo, quando decollò in prova la Peugeot LMP1 di Marc Genè. Incidenti terribili, risoltosi per fortuna senza vittime, ma capaci di indicare una volta di più quale fosse la strada da seguire.

Al di là del contributo alla ricerca e allo sviluppo della tecnica, Le Mans è stata anche il palcoscenico ideale per mettere in mostra qualità che facevano delle prestazioni l’identità del marchio. E’ il caso dell’Alfa Romeo, dominatrice a Le Mans negli anni Trenta, quando si impose per quattro anni consecutivi con la 8C, mitica vettura Sport con motore 8 cilindri sovralimentato, guidata nel 1931 dagli inglesi Earl Howe e Henry Birkin; nel 1932 da Luigi Chinetti (primo italiano vincitore a Le Mans) e dal francese Raymond Sommer; nel ‘33 ancora da Sommer, ma questa volta in coppia con Tazio Nuvolari, e nel ‘34 ancora da Chinetti, in coppia con Philippe Etanceline.

L’Alfa del quadriennio d’oro viene ricordata da tutti come un’auto leggendaria e inimitabile, il meglio che la tecnologia dell’epoca potesse esprimere. Non per niente, la 8C ottenne anche, dopo la quaterna d’inizio decennio, un prestigioso secondo posto a Le Mans nel 1935, per non dire delle due vittorie nella 24 Ore di Spa (1932-‘33), dei tre successi consecutivi nella Targa Florio (1931-‘32-‘33) e nella Mille Miglia (1932-‘33-‘34). Se gli anni Trenta sono passati alla storia per lo strapotere dell’Alfa Romeo, i Sessanta vengono invece ricordati soprattutto per le imprese della Ferrari.

La rivalità Ferrari-Ford ha reso indimenticabili gli anni 60: anni ruggenti, che hanno regalato sei vittorie consecutive alla casa di Maranello, tra il 1960 e il 1965, e quattro al colosso americano, tra il 1966 e il ‘69. Fu, quella, l’era dell’orgoglio italiano e della rabbia americana. Anni di fuoco. Enzo Ferrari aveva disdetto all’ultimo minuto l’accordo già raggiunto con gli americani per cedere l’azienda alla Ford. Un ripensamento legato alla sottrazione dei pieni poteri nella gestione dell’attività sportiva. La Ferrari si sarebbe poi assicurata un futuro tranquillo passando sotto il controllo della Fiat di Gianni Agnelli, ma Henry Ford non sopportò l’affronto e diede mandato ai suoi uomini di realizzare una macchina capace di umiliare le Ferrari in gara. Nacque così la GT40, “arma totale” made in Usa per Le Mans. Un’auto straordinaria, con un carisma tanto forte da aver “imposto” alla Ford di metterne in cantiere una versione stradale moderna, all’inizio del nuovo secolo.

Il confronto esasperato creò non pochi problemi, tanto che nel 1965 tutte le vetture ufficiali dei due schieramenti furono costrette al ritiro. La vittoria andò comunque alla Ferrari LM (la sigla sta proprio per Le Mans) della scuderia americana Nart gestita da Luigi Chinetti, all’epoca importatore delle vetture di Maranello negli Usa. Guidata da Chinetti, l’auto era una evoluzione della Ferrari 250P ed era stata progettata per l’omologazione fra le granturismo, ma fu costretta dalla federazione internazionale a confrontarsi con le più potenti vetture della categoria Sport. Ne uscì a testa alta, grazie allo straordinario motore 12 cilindri di 3.3 litri da 320 cavalli e all’eccellente equilibrio dinamico, qualità che le aprirono la strada a numerosi successi, tra i quali spicca appunto il trionfo nella 24 Ore del ’65.

Dal ‘66 la squadra ufficiale Ford si sarebbe presentata con una radicale evoluzione del progetto, avviando il suo ciclo vincente con la GT40 Mk II, “mostro” di 7 litri di cilindrata con potenza di 485 cavalli. Ferrari rispose con il modello 330P3 (4 litri per circa 420 cv) e affidò a diverse scuderie private il modello 365P2 (4,4 litri per quasi 400 cv). Ma quell’anno la vittoria andò alla Ford affidata alla coppia formata dai neozelandesi Chris Amon e Bruce McLaren. Il dominio americano durò fino al 1968, l’anno del Gran Rifiuto Ferrari.

In polemica con la CSI (Commissione Sportiva Internazionale) per le modifiche apportate al regolamento che di fatto escludevano le sue P4, il Drake di Maranello si rifiutò di partecipare alla 24 Ore, nonostante avesse un motore per la Formula 1 adattabile alle nuove regole. La Ferrari venne dunque rappresentata solo dai privati, e la migliore fu una 275 Le Mans verniciata in un insolito colore verde, iscritta nella categoria Sport da David Piper. Non era una vettura di ultimissima generazione, ma era stata sapientemente aggiornata e dotata di una carrozzeria in poliestere/fibra di vetro, invece che di alluminio.

La lotta al vertice si svolse comunque tra la Ford (che vinse) e i nuovi prototipi con motore 3.0 litri delle francesi Matra-Simca (MS 630) e Alpine (A220), con Porsche 908 e Alfa Romeo 33 nel ruolo di outsider. L’ora della Matra sarebbe scoccata soltanto nel 1972, quando ebbe inizio il trittico “firmato” da Henry Pescarolo, vincitore anche nel ‘73 e ‘74 in coppia prima con Graham Hill, poi con il connazionale Larrousse.

Il nazionalismo francese avrebbe trovato nuove occasioni di gloria soltanto negli anni 90, con i due successi di Peugeot (1992 e 1993), che nell’era moderna ha dato vita alla interessantissima sfida con i tedeschi di Audi a colpi d’innovazione. Un percorso virtuoso, che ha generato una logica sinergia con la produzione di serie, prima sul fronte del diesel, di cui s’è detto, poi, in epoca più recente, sul fronte della tecnologia ibrida, area tecnica dominante a Le Mans dal 2012, in cui si sono tuffati, dopo Audi, anche Toyota e Porsche.

I giapponesi, dominatori sul mercato delle ibride stradali, hanno vinto le prime due prove del Mondiale Endurance 2014 (Silverstone e Spa), con la Toyota TS40 Hybrid, ma a Le Mans non hanno mai vinto. Dopo un secondo e quarto posto nel 2013, un terzo e quinto nel 2012, sperano finalmente di battere l’Audi quest’anno. Ma la Casa di Ingolstadt ha trionfato nelle ultime quattro edizioni, prima con le superdiesel R15 e R18 TDI (2010 e 2011), poi con l’avveniristica Audi R18 e-tron quattro (2012 e 2013), e quest’anno ha ancora una volta le carte in regola per battersi al meglio. Tra i due litiganti c’è però il terzo incomodo Porsche, che torna con l’intento di scrivere un altro capitolo della sua leggendaria vicenda sportiva.

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Sabato 7 Giugno 2014 - Ultimo aggiornamento: 13-06-2017 15:06 | © RIPRODUZIONE RISERVATA